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sabato 9 febbraio 2019

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza approvato dal Governo

Il Consiglio dei Ministri del 10 gennaio 2019, in esame definitivo e su proposta del Ministro della Giustizia Bonafede, ha licenziato il decreto legislativo il quale, attuando specificamente la Legge 19 ottobre 2017, n. 155, immette nell’ordinamento giuridico il nuovo “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.
Il provvedimento contiene la riforma organica delle procedure concorsuali, di cui all’attuale “legge fallimentare”, e della disciplina sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento (legge n. 3/2012), alterate da numerosi interventi normativi, di natura episodica e talvolta emergenziale che hanno generato vari indirizzi giurisprudenziali, con un incremento delle controversie pendenti e il notevole rallentamento dei tempi di definizione delle procedure concorsuali.
L’approvazione del decreto è avvenuta con la formula “salvo intese”, essendo ancora aperta la questione di chi può svolgere le funzioni di curatore e commissario essendo sul tavolo la proposta d’inserire tra i soggetti anche i consulenti del lavoro”.
Il testo finale del provvedimento contiene un numero significativo di modifiche, perlopiù, a prima vista, secondarie, ma con alcune eccezioni che meriteranno un pronto approfondimento, rispetto allo schema di decreto legislativo approntato dal nuovo governo, sulla base del testo a suo tempo predisposto dalla “Commissione Rordorf”.http://www.avvocatocalvanese.com    

venerdì 2 novembre 2018

Risanamento e accordo di ristrutturazione dei debiti nella riforma delle procedure concorsuali

L’11 ottobre 2017 è stato approvato in via definitiva il Disegno di Legge n. 2681 recante “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” (“DDL”), recependo i risultati dei lavori della Commissione Rordorf.
Entro i dodici mesi successivi il Governo avrebbe dovuto adottare uno o più decreti legislativi funzionali a riscrivere integralmente la legge fallimentare, oltre che a modificare, tra l’altro, la legge 27 gennaio 2012, n. 3, in materia di composizione delle crisi da sovraindebitamento ed il sistema codicistico dei privilegi e delle garanzie.
Nel febbraio 2018, è stata predisposta e diffusa, quale atto esecutivo del DDL, una prima bozza del Codice della Crisi e dell’Insolvenza (“CCI”), non risultando ad oggi essere ancora stato promulgato in via finale, ma rappresentando senza dubbio un importante punto di riferimento per comprendere se e come il diritto concorsuale italiano sia destinato a mutare, con suo adattamento alla realtà imprenditoriale e sociale cui è destinato ad applicarsi [1].
Il DDL si compone di sedici articoli, suddivisi in 3 Capi, di cui il Capo I (articoli 1-2) sulle disposizioni generali, il Capo II (articoli 3-15) sui principi e criteri direttivi per la riforma della disciplina delle procedure di crisi e di insolvenza e il Capo III (articolo 16) sulle disposizioni finanziarie.
L’articolato si sviluppa sostanzialmente in dieci aree, quali la sostituzione del fallimento con la liquidazione giudiziale, la fase preventiva e stragiudiziale per anticipare l’emersione della crisi, l’istituzione di un giudice ad hoc per le procedure concorsuali, il concordato preventivo in continuità aziendale, il marketplace nazionale per i beni in vendita tramite il sistema common, la procedura unitaria per i gruppi di imprese, il più facile accesso al credito, l’estensione dell’art. 2409 c.c. anche alle società in accomandita per azioni, la tutela per chi acquista immobili da costruire e, quanto costituirà oggetto del presente contributo, l’incentivazione degli strumenti di composizione stragiudiziale della crisi.
Un ambito, di sicuro interesse nel rapporto tra imprenditore in stato di crisi ed istituti di credito, è rappresentato dagli strumenti minori di ristrutturazione, con particolare riguardo al piano attestato di risanamento ed all’accordo di ristrutturazione.
Il “nuovo” piano di risanamento
Il DDL stabilisce la necessità che il piano attestato di risanamento debba avere forma scritta, essere munito di data certa ed avere contenuto analitico.
La previsione è volta a colmare un’oggettiva carenza dell’originario sistema legislativo concorsuale e risulta perfettamente coerente con i principi per la redazione dei piani di risanamento elaborati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili nel settembre 2017, avendo come obiettivo quello di definire forma e sostanza di uno degli strumenti solutori di una crisi d’impresa che ha fatto registrare una massiva applicazione nella prassi ristrutturativa, ma che, al tempo stesso e su base statistica, è risultato spesso inidoneo a consentire un effettivo risanamento, vedendo seguire procedure concorsuali più invasive ed essendosi così dovuta verificare, alla prova dei fatti, la sua effettiva capacità esentiva fallimentare e penale.
Due sono i presupposti fondamentali per un imprenditore che decida di risanare la propria attività aziendale mediante un piano attestato: l’impresa deve trovarsi in una situazione di difficoltà non irreversibile; il piano deve avere come scopo il risanamento dell’impresa e non deve essere utilizzato con finalità meramente liquidatorie.
Per quanto riguarda il primo presupposto, l’impresa non deve trovarsi in situazione di insolvenza, presupposto per il fallimento, oppure crisi irreversibile. Il contesto in cui è possibile utilizzare questo strumento prevede dunque una situazione di squilibrio aziendale recuperabile attraverso lo sviluppo di un piano redatto dall’imprenditore e da questi proposto ai creditori. In altre parole, deve trattarsi di una crisi contingente e temporanea, destinata a poter essere risolta mediante lo strumento concorsuale protetto e, con esso, mediante l’accordo con i creditori finanziari.
Riguardo invece alle finalità, l’obiettivo del piano attestato è il risanamento dell’esposizione debitoria e il riequilibrio della situazione finanziaria, cioè il recupero di una normale situazione economico/finanziaria che consenta la conservazione della continuità aziendale.
Il piano attestato di risanamento si caratterizza per:
  • la natura privata dello strumento e degli accordi che allo stesso siano collegati; consente la riservatezza degli accordi sottoscritti, evitando una pubblicità negativa nei confronti degli stakeholders e dei clienti con cui l’azienda continuerà ad avere rapporti regolari; non è obbligatoria la pubblicazione dell’accordo nel Registro delle Imprese; quest’ultima è una opportunità che l’imprenditore può cogliere per sfruttare i benefici fiscali su eventuali sopravvenienze attive rivenienti dalle pattuizioni sottoscritte con i creditori (o parte di essi;
  • la veridicità dei dati e la fattibilità economica della ipotesi ristrutturativa, che devono essere attestati da un esperto indipendente nominato dal debitore; l’attestatore garantirà, a fronte di un approfondito lavoro, essenzialmente due elementi; in primo luogo che i dati di partenza su cui poggia il piano sono veritieri e affidabili; in secondo luogo, che le assunzioni di piano hanno una logica economico/finanziaria in grado di prevedere il ragionevole raggiungimento del risanamento dell’impresa, con conseguente possibilità di servire i debiti nella misura ed alle condizioni proposte; inoltre, poiché la nomina è una facoltà diretta dell’imprenditore, in base ai requisiti di indipendenza dall’impresa e di professionalità, specificamente qualificati nel comma 3, lettera d) dell’art. 67 della l. fall., l’attestatore dovrà garantire la propria totale estraneità agli interessi dell’impresa e dell’imprenditore;
  • la rilevanza giuridica in caso di successivo fallimento dell’impresa.
Non è previsto l’intervento del Tribunale sia nella fase delle trattative che nel processo di definizione degli accordi.
Ciò significa che il piano attestato di risanamento non è una procedura concorsuale, non è governabile, né è controllato, da parte di un’autorità preposta e non prevede il coinvolgimento dell’intero ceto creditorio.
Il piano attestato di risanamento, anche e soprattutto in coerenza con i principi dettati dal DDL, deve illustrare le condizioni, le ipotesi e le variabili secondo cui l’imprenditore si impegna a superare la situazione di crisi.
Poiché si pone l’obiettivo di risanare l’esposizione debitoria e riequilibrare la situazione finanziaria, il piano attestato di risanamento dovrà:
  • offrire un’adeguata descrizione dei fatti che hanno determinato la situazione critica e un’analisi delle relative cause;
  • fornire un’esatta fotografia dei processi, della relativa rilevazione contabile e dei loro effetti;
  • dare un’immagine della realtà aziendale completa, assimilabile a quella offerta dal bilancio, nel senso che l’intervento di risanamento deve misurarsi sull’intera area aziendale, non solo su quella finanziaria;
  • illustrare le assunzioni e i presupposti sui quali il management ritiene di fondare l’intervento di risanamento. Dovrà quindi esporre gli interventi gestionali e organizzativi volti al superamento della criticità, traducendoli in effetti economici, patrimoniali e finanziari;
  • descrivere gli interventi specifici sull’indebitamento necessari al recupero del riequilibrio finanziario, la cosiddetta manovra finanziaria; nell’ambito di quest’ultima, trattandosi di uno strumento estremamente flessibile, è possibile prevedere richieste di Nuova Finanza (seppur senza la caratteristica della prededucibilità in caso di fallimento) o stralci di debito.
L’orizzonte temporale deve pertanto assicurare, anche in termini previsionali, che l’impresa non abbia discontinuità nei pagamenti dei crediti correnti e non incorra in situazioni irreversibili; e ciò specie nei casi in cui vi sia un disallineamento temporale tra piano di risanamento, che normalmente deve essere contenuto entro cinque anni, e piano di pagamento dei debiti.
Va poi aggiunto che il piano attestato di risanamento acquista effettiva rilevanza giuridica soltanto quando l’impresa non riesca nel proprio obiettivo di risanamento, cioè nel caso di suo insuccesso e, quale conseguenza, di successivo fallimento dell’impresa: in tal caso, quando il curatore e il Tribunale dovranno verificare la possibilità di esercitare l’azione revocatoria o l’azione penale fallimentare, il piano e l’attestazione dell’esperto andranno a produrre gli effetti che l’ordinamento gli riconosce, ovvero la stabilizzazione degli atti posti in sua esecuzione, l’esclusione dalle azioni revocatorie e dai reati fallimentari; ma, a condizione che il piano e l’attestazione fossero, secondo un giudizio di prognosi, sufficientemente analitici ed adeguati.

domenica 15 luglio 2018

AMMORTAMENTO ALLA FRANCESE E ANATOCISMO


La sussistenza o meno dell’anatocismo nell’ammortamento cosiddetto alla francese è questione ancora controversa, che è stata risolta nel tempo in maniera diversa dai giudici di merito. Di recente il Tribunale di Torino, con sentenza 13 giugno 2018, n.3001, si è espresso in maniera favorevole rispetto all’ammortamento alla francese, laddove il Tribunale di Napoli aveva emesso una sentenza in senso opposto(Tribunale di Napoli 13 febbraio 2018 Est.Pastore Alinante).Ma procediamo con ordine, partendo dalla sentenza più recente, con la quale il Giudice del capoluogo piemontese si è espresso nel modo seguente:” l’ammortamento c.d. “alla francese” non comporta, per definizione, alcun fenomeno di capitalizzazione degli interessi. Il metodo alla francese comporta infatti che gli interessi vengano comunque calcolati unicamente sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata e non anche sugli interessi pregressi”. In altri termine, nel sistema progressivo di cui trattasi ciascuna rata comporta la liquidazione ed il pagamento di tutti gli interessi dovuti per il periodo cui la rata stessa si riferisce e unicamente di questi. Tale importo viene quindi integralmente pagato con la rata, laddove la residua quota di essa va già ad estinguere il capitale. Ciò non comporta tuttavia capitalizzazione degli interessi, atteso che gli interessi conglobati nella rata successiva sono a loro volta calcolati unicamente sulla assidua quota di capitale, ovverossia sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata o le rate precedenti.
I tassi di mora non sono rilevanti ai fini della valutazione della sussistenza o meno dell’usura nel contratto di mutuo, atteso che essi hanno la mera funzione di liquidazione preventiva del danno e che la loro ipotetica manifesta eccessività comporta esclusivamente la riduzione ex art. 1384 c.c. e non già la sanzione prevista dal comma 2 dell’art. 1815 c.c.
Ai fini della verifica di usurarietà, sono irrilevanti le voci di costo che, sebbene collegate all’erogazione del credito, siano in realtà: meramente potenziali, perché non dovute per effetto della mera conclusione del contratto, essendo le stesse subordinate al verificarsi di eventi futuri ancora possibili ma concretamente non verificatisi (ad esp. l’interesse di mora potenzialmente usuraio ma inesigibile); o del tutto irreali, perché non dovute per effetto della mera conclusione del contratto e subordinate al verificarsi di eventi che non si sono verificati, né potranno in seguito verificarsi (esp. il quantum dovuto per l’estinzione anticipata del mutuo).

Al contrario Tribunale Napoli, 13 Febbraio 2018. Est. Pastore Alinante, che si esprime in senso opposto, sostenendo che nei mutui con ammortamento alla francese, la capitalizzazione composta non dichiarata in contratto, ma risultante solo dal piano di ammortamento, integra un anatocismo vietato dall’art. 1283 c.c. e non legittimato neanche dalla delibera del C.I.C.R. del 09/02/2000, che si riferisce solo agli interessi moratori. Pertanto, l’effetto di tale anatocismo va espunto da tale ammortamento, che sarà ridefinito secondo la capitalizzazione semplice.

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lunedì 28 maggio 2018

Vademecum sul Codice della Privacy redatto dal CNF


VADEMECUM PER GLI STUDI LEGALI
concernente gli adempimenti richiesti dal "codice della privacy"(d.lgs.196/2003)
Il Consiglio Nazionale Forense, preso atto del nuovo testo che riordina la materia della "privacy", concernente i diritti fondamentali della persona riguardo ai dati personali, le regole sul trattamento dei dati, le sanzioni per la loro violazione, e tenuto conto degli allegati al Codice e dei chiarimenti interpretativi offerti dal Garante per la protezione dei dati personali con il provvedimento del 31.3.2004 e i pareri del 23.4.2004 e 26.4.2004 che incidono sugli adempimenti dei professionisti, suggerisce agli avvocati di attenersi alle seguenti prescrizioni:
1. Rapporti con il cliente e con i terzi
1.1 Informativa
Nel primo contatto con il cliente occorre informarlo sui punti previsti dall’art. 13 del Codice, oralmente o per iscritto.
Quantunque il Codice affidi al professionista la scelta della forma della comunicazione, è preferibile – al fine di acquisire la prova dell’adempimento dell’obbligo di informativa - raccogliere la firma del cliente su apposito modulo.
In ogni caso, l’informativa deve riguardare le finalità e le modalità del trattamento cui sono destinati i dati raccolti che riguardano il cliente, la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati, le conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere, i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati possono essere comunicati, anche nella loro qualità di responsabili o incaricati, i
diritti previsti dal Codice all’art. 7 e gli estremi identificativi del titolare nonché del responsabile del trattamento, se designato.
E’ anche possibile offrire queste informazioni mediante un avviso esposto in luogo visibile e accessibile dal cliente.
Tuttavia, in questo caso, non si acquisisce la prova dell’avvenuta informativa.
L’informativa deve essere fornita anche ai terzi sui quali si raccolgano dati.
L’obbligo non riguarda l’attività rivolta a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
L’obbligo nei confronti dei terzi non riguarda l’attività preparatoria di quella difensiva.
Tuttavia, è dubbio se l’esonero possa riguardare anche l’attività stragiudiziale. Poiché nell’attività stragiudiziale (consulenza, redazione di atti stragiudiziali, trattative, etc.) l’avvocato opera per tutelare i diritti del proprio cliente, il CNF propone di includere anche l’attività stragiudiziale nell’area delle attività esonerate dall’obbligo di informativa a terzi.
1.2 Consenso al trattamento dei dati
Il consenso del cliente al trattamento dei dati non è richiesto se si tratta di dati comuni (art. 24) e in caso di dati sensibili e giudiziari laddove il trattamento avvenga per valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Il Codice esonera dal consenso dell’interessato chi tratta i dati personali se sono diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari. Tuttavia, a seguito delle autorizzazioni generali del Garante n. 4 del 2002 e n. 7 del 2002, i professionisti (e quindi gli avvocati) sono stati esonerati dall’acquisizione del consenso anche per i dati sensibili e per i dati giudiziari. Le cit. autorizzazioni scadono il 30.6.2004 e si ha notizia che il Garante rinnoverà, come di consueto, le autorizzazioni.
Occorre però precisare che, allo stato, l’esonero riguarda soltanto l’attività espletata per "far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria" (aut. n. 4/2002).
In via interpretativa, mentre è pacifico che l’esonero si possa estendere ad ogni attività preparatoria della difesa, e quindi alla raccolta di dati, di documenti e di informazioni utili per la preparazione degli atti difensivi, è discusso se tale esonero riguardi anche l’attività stragiudiziale.
Il consenso del terzo al trattamento non è richiesto se si tratta di attività per far valere diritti in sede giudiziaria, anche se i dati sono sensibili o sono dati giudiziari.
L’esonero deriva dalle autorizzazioni nn. 4 e 7 del 2002, e dovrebbe essere rinnovato entro il 30.6.2004.
Se l’attività è stragiudiziale, si ripropongono i problemi interpretativi di cui si è detto.
Occorre segnalare che l’informativa e il consenso (nei soli casi in cui è
richiesto) non possono risultare semplicemente dalla formula con cui il cliente conferisce il mandato al difensore in quanto è necessario che riguardino l’intero trattamento e non una o più operazioni.
L’integrazione del mandato con queste indicazioni appare superflua, specie se il cliente ha già sottoscritto il modulo relativo all’informativa e all’acquisizione del consenso.
2. Organizzazione dello studio
I dati raccolti devono essere trattati in modo lecito e secondo correttezza (art. 11 Codice).
La formazione del fascicolo può essere effettuata: in via manuale e cartacea, oppure, o anche, mediante strumenti informatici.
2.1 Trattamento manuale e cartaceo ("trattamenti senza l’ausilio di strumenti elettronici": art. 35 Codice e punti 27-29 All. B).
Questo tipo di trattamento normalmente si effettua mediante l’utilizzazione di contenitori sui quali si può apporre un numero identificativo nonché il nome del cliente e delle parti. Al fine di evitare che persone non autorizzate possano conoscere i nomi dei clienti o dei terzi che eventualmente risultino dal contenitore, è opportuno (anche se non espressamente richiesto dalla norma) che i nomi siano evidenziati solo all’interno del fascicolo. In tal caso, l’elenco che abbina numeri e nomi deve essere conservato in luoghi e secondo modalità che prevengano l’accesso non autorizzato di terzi.
Gli archivi debbono essere conservati in luoghi ad "accesso selezionato". Questa espressione può essere intesa in senso logico e pratico: il CNF suggerisce di collocare i fascicoli in locali dello studio in cui non abbiano accesso diretto né i clienti né i terzi, e quindi non nell’ingresso, nella sala d’aspetto o nei corridoi. Ciò non significa che si debbano collocare "sotto chiave" o in locali appositi esclusivamente riservati a tale uso, ben potendo essere conservati nei locali adibiti al lavoro, sia del titolare o dei titolari, sia dei praticanti e della segreteria (cioè dove lavorano gli incaricati del trattamento).
Nei locali in cui l’accesso è selezionato (le varie stanze di lavoro) gli incaricati possono quindi tenere e consultare i fascicoli attenendosi alle prescrizioni dell’ordinaria diligenza. Al riguardo è previsto che il titolare fornisca istruzioni - per iscritto - finalizzate al controllo e alla custodia degli atti e dei documenti utilizzati.
2.2 Trattamento con strumenti elettronici (art. 34 Codice e punti 1-24 All. B).
Questo tipo di trattamento può essere effettuato a seguito della dotazione ai singoli incaricati di credenziali di autenticazione (user ID e password) che consentano il superamento di una procedura di autenticazione.
Le principali regole al riguardo prevedono:
  • l’assegnazione di un "user ID", che identifica l’incaricato del trattamento, cioè il titolare dello studio, i praticanti, la segretaria. Tale codice è
  • personale e non può essere assegnato ad altri incaricati, neppure in tempi diversi;
  • dopo la digitazione dell’"user ID" occorre predisporre e inserire la "password", che deve essere di esclusiva conoscenza dell’incaricato del trattamento;
  • l’elenco delle password deve essere conservato in luogo non accessibile ad alcuno tranne al soggetto designato a conservarlo; ciò significa che il titolare di una password non è legittimato a conoscere la password di altri soggetti che operano nello studio (tranne ovviamente il soggetto designato a conservare l’elenco). In caso di prolungata assenza o impedimento anche temporaneo del titolare della password è possibile conoscere la sua password sole per esigenze "indispensabili e indifferibili" (come previsto dal punto 10 dell’All.. B) al Codice);
  • le regole dello studio legale relative all’uso di user ID e password ("credenziali di autenticazione") per le esigenze di cui sopra, debbono risultare da documento scritto recante "idonee e preventive disposizioni" al riguardo (punto 10 All. cit.);
  • debbono altresì essere impartite istruzioni circa le cautele da adottarsi per assicurare la segretezza e la diligente custodia delle credenziali;
  • ogni password (composta di almeno otto caratteri, o comunque del numero di caratteri pari al massimo consentito) non può contenere riferimenti agevolmente riconducibili all’incaricato (nome, cognome, etc.) e deve essere modificata ogni sei mesi e, nel caso di trattamento di dati sensibili o giudiziari, ogni tre mesi. Di conseguenza anche l’elenco delle password deve essere modificato con medesima scadenza;
  • le credenziali non utilizzate per almeno sei mesi vanno disattivate;
(Il CNF si adopererà per semplificare queste procedure)
  • Il CNF ritiene che l’organizzazione dello studio legale e dell’attività in esso svolta non consenta l’individuazione di "profili di autorizzazione" come previsti dai punti 12,13 e 14 dell’All. cit.;
  • il computer deve essere dotato di programmi antivirus (punto 16 All. cit., ex art. 615-quinquies c.p.) nonché di programmi contro il rischio di intrusione (firewall);
  • i programmi suddetti debbono essere aggiornati almeno ogni sei mesi.
  • è, infine, previsto che siano impartite istruzioni organizzative e tecniche per il salvataggio dei dati con frequenza almeno settimanale, per la custodia e l’uso dei supporti su cui sono memorizzati i dati, nonché per il ripristino dei dati (da eseguirsi entro 7 giorni) che siano stati danneggiati. I supporti non utilizzati devono essere distrutti o resi inutilizzabili.
2.3 Illegittimità di dichiarazione liberatoria del cliente in ordine agli adempimenti a cui è tenuto il difensore
Poiché la disciplina vigente attiene alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti non è legittimo richiedere al cliente, anche se questi sia consenziente, di sottoscrivere una formula liberatoria di ogni adempimento e di ogni responsabilità a cui è tenuto l’avvocato.
2.4 Studi associati e in collaborazione
Le regole relative al trattamento con strumenti elettronici si applicano comunque agli studi, anche se gli avvocati sono tra loro in regime di associazione, e se non associati, utilizzano le medesime strutture.
Nel caso di utilizzazione comune di strumenti elettronici, ogni avvocato o incaricato deve possedere e usare la propria ID e la propria password.
Per quanto riguarda il trattamento senza l’ausilio di strumenti elettronici, il CNF propone di applicare la disciplina in modo tale da proteggere l’archivio da terzi, e di consentire che le misure di conservazione possano essere comuni a tutti i professionisti e gli incaricati che lavorano negli studi legali associati o in collaborazione.
2.5 Soggetti che effettuano il trattamento
All’interno di ogni studio legale si dovrà provvedere, laddove non si sia già effettuato, all’individuazione di tre soggetti:
  • il titolare del trattamento: nel caso di libero professionista che esercita la professione in forma non associata il titolare è la persona fisica in quanto tale; nel caso di associazioni professionali o società di avvocati, il titolare è l’entità nel suo complesso.
  • il responsabile del trattamento: figura facoltativa designata dal titolare e predisposta a verificare i corretti adempimenti di legge.
  • gli incaricati del trattamento: ovvero le persone fisiche autorizzate a compiere operazioni di trattamento, nel caso di specie tutti i "collaboratori" dello studio legale (avvocati, praticanti, segretarie, etc.).
2.6 Notificazione
A fronte dell’ampio spettro applicativo dell’art. 37 e della conseguente nascita di dubbi di natura ermeneutica, con il provvedimento generale del 31 marzo 2004 l’Autorità Garante è intervenuta fornendo ben più che una mera interpretazione della norma in esame.
Il menzionato provvedimento ha infatti disposto la sottrazione all’obbligo di notificazione al Garante di alcuni trattamenti tra i quali "i trattamenti di dati genetici o biometrici effettuati nell’esercizio della professione di avvocato, in relazione alle operazioni e ai dati necessari per svolgere le investigazioni difensive di cui alla legge n. 397/2000, o comunque per valere o difendere un diritto anche da parte di un terzo in sede giudiziaria. Ciò sempre che il diritto sia di rango almeno pari a quello dell’interessato e i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento" nonché i trattamenti di dati personali "registrati in banche di dati utilizzate in rapporti con l’interessato di fornitura di beni, prestazioni o servizi, o per adempimenti contabili o fiscali, anche in caso di inadempimenti contrattuali, azioni di recupero del credito e contenzioso con l’interessato".
Il CNF non ritiene che, nei limiti predetti, sia necessaria alcuna notificazione all’Autorità Garante.
3. Documento programmatico sulla sicurezza
Nei prossimi giorni sarà disponibile sul sito del Garante il fac-simile del DPS.
In ogni caso l’art. 34 c. 1 lett. g) e il punto 19 all. B fanno obbligo al titolare del trattamento dei dati di redigere entro il 31 marzo di ogni anno – per il 2004 il termine è previsto per il 30 giugno p.v. (ex parere del 22.3 2004 del Garante) - il documento programmatico di sicurezza.
Il codice stabilisce che il documento menzionato deve fornire idonee informazioni riguardo:
  1. l’elenco dei trattamenti di dati personali (ovvero la tipologia dei dati trattati);
  2. la distribuzione dei compiti e delle responsabilità in relazione al trattamento dei dati (si rinvia a quanto esposto al § 2.2)
  3. l’analisi dei rischi (per esempio, di perdita accidentale o di distruzione dei dati);
  4. le misure da adottare per garantire l'integrità e la disponibilità dei dati, nonché le disposizioni per la protezione dei locali destinati alla custodia (in funzione dei rischi individuati);
  5. la descrizione dei criteri e delle modalità per il ripristino della disponibilità dei dati in seguito a distruzione o danneggiamento (v. § 2.2);
  6. la previsione di interventi formativi a favore degli incaricati del trattamento (gli incaricati devono essere resi edotti dei rischi che incombono sui dati, delle misure disponibili per prevenire eventi dannosi, dei profili della disciplina sulla protezione dei dati personali più rilevanti in rapporto alle relative attività, delle responsabilità che ne derivano e delle modalità per aggiornarsi sulle misure minime adottate dal titolare);
  7. la descrizione dei criteri da adottare per garantire l’adozione delle misure minime di sicurezza in caso di trattamenti di dati personali affidati, in conformità al codice, all'esterno della struttura del titolare.
4. Attività difensiva e bilanciamento con gli interessi dei terzi
L’avvocato può utilizzare in giudizio dati personali sensibili, anche senza il consenso, laddove il trattamento è effettuato "per far valere o difendere in sede giudiziaria un diritto" (art. 26, comma 4, lett. c).
Dalla lettura della prima parte di questo comma appare pacifica la preminenza, peraltro stabilita in via legislativa, del diritto di difesa sul diritto alla privacy anche in merito al trattamento dei dati sensibili.
Se i dati sono idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale, il diritto deve essere di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile (art. 26, comma 4, lett. c)).
Nel caso di trattamento di dati cd. "ultrasensibili" (relativi allo stato di salute e la vita sessuale), si pongono problemi di interferenza tra l’attività difensiva protetta dall’art. 24 Cost. e la tutela della privacy.
Va ricordato che – sul punto - l’Autorità Garante, in un parere reso il 9 luglio 2003, ha affermato che "nel valutare il «rango» del diritto di un terzo che può giustificare l’accesso o la comunicazione, deve essere utilizzato come parametro di riferimento non il «diritto di azione e di difesa» che pure è costituzionalmente garantito, quanto questo diritto sottostante che il terzo intende far valere sulla base del materiale documentale che chiede di conoscere".
Contrariamente a quanto sopra si è, però, espresso il Tribunale di Bari (con sentenza del 12 luglio 200, in Foro it.., 2000, I, 2989) che ha, invece, affermato di non nutrire il "minimo dubbio che l’azionato diritto alla prova del ricorrente, in quanto diretta espressione del diritto costituzionale di azione, sia di rango quanto meno pari, se non superiore, a quello degli interessati ai particolari dati sensibili contenuti nei documenti […]".
Informativa ai sensi dell’art. 13 d. lgs. 196/2003
Gentile Cliente, ai sensi dell’art. 13 d. lgs. 196/2003 (di seguito T.U.), ed in relazione ai dati personali di cui lo Studio ______________________ entrerà in possesso con l’affidamento della Sua pratica, La informiamo di quanto segue:
1. Finalità del trattamento dei dati. 
Il trattamento è finalizzato unicamente alla corretta e completa esecuzione dell’incarico professionale ricevuto, sia in ambito giudiziale che in ambito stragiudiziale.
2. Modalità del trattamento dei dati. 
a) Il trattamento è realizzato per mezzo delle operazioni o complesso di operazioni indicate all’art. 4 comma 1 lett. a) T.U.: raccolta, registrazione, organizzazione, conservazione, consultazione, elaborazione, modificazione, selezione, estrazione, raffronto, utilizzo, interconnessione, blocco, comunicazione, cancellazione e distruzione dei dati. 
b) Le operazioni possono essere svolte con o senza l’ausilio di strumenti elettronici o comunque automatizzati. 
c) Il trattamento è svolto dal titolare e/o dagli incaricati del trattamento.
3. Conferimento dei dati. 
Il conferimento di dati personali comuni, sensibili e giudiziari è strettamente necessario ai fini dello svolgimento delle attività di cui al punto 1.
4. Rifiuto di conferimento dei dati. 
L’eventuale rifiuto da parte dell’interessato di conferire dati personali nel caso di cui al punto 3 comporta l’impossibilità di adempiere alle attività di cui al punto 1.
5. Comunicazione dei dati. 
I dati personali possono venire a conoscenza degli incaricati del trattamento e possono essere comunicati per le finalità di cui al punto 1 a collaboratori esterni, soggetti operanti nel settore giudiziario, alle controparti e relativi difensori, a collegi di arbitri e, in genere, a tutti quei soggetti pubblici e privati cui la comunicazione sia necessaria per il corretto adempimento delle finalità indicate nel punto 1.
6. Diffusione dei dati. 
I dati personali non sono soggetti a diffusione.
7. Trasferimento dei dati all’estero. 
I dati personali possono essere trasferiti verso Paesi dell’Unione Europea e verso Paesi terzi rispetto all’Unione Europea nell’ambito delle finalità di cui al punto 1.
8. Diritti dell’interessato. 
L’art. 7 T.U. conferisce all’interessato l’esercizio di specifici diritti, tra cui quello di ottenere dal titolare la conferma dell’esistenza o meno di propri dati personali e la loro messa a disposizione in forma intelligibile; l’interessato ha diritto di avere conoscenza dell’origine dei dati, della finalità e delle modalità del trattamento, della logica applicata al trattamento, degli estremi identificativi del titolare e dei soggetti cui i dati possono essere comunicati; l’interessato ha inoltre diritto di ottenere l’aggiornamento, la rettificazione e l’integrazione dei dati, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione della legge; il titolare ha il diritto di opporsi, per motivi legittimi, al trattamento dei dati.
9. Titolare del trattamento.
Titolare del trattamento è ____________________ con domicilio eletto in ______________.
________, lì ____________________
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Per ricevuta comunicazione
Io sottoscritto ____________________________________ autorizzo a norma degli art. 23 e 26 T.U. lo Studio ___________________ al trattamento dei miei dati personali comuni, sensibili e giudiziari.
________, lì ____________________
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Per il rilasciato consenso

lunedì 30 aprile 2018

L'intervento della Corte Costituzionale sulla Legge Pinto


La Corte Costituzionale con Sentenza 26 aprile 2018, n. 88, nel pronunciarsi in merito alla sollevata eccezione di illegittimità costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile) - come sostituito dall'art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 - nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.
Con quattro ordinanze di analogo tenore, la Corte di cassazione, sezione sesta civile, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile) - come sostituito dall'art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 - in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
La disposizione censurata, nel significato ormai assurto a "diritto vivente", preclude la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume essersi verificata (sentenza n. 30 del 2014; Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenze 1° luglio 2016, n. 13556, 12 ottobre 2015, n. 20463, 2 settembre 2014, n. 18539; seconda sezione civile, sentenza 16 settembre 2014, n. 19479).
In sostanza, la Corte di cassazione censura la norma proprio nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione alla previa definizione del procedimento presupposto.
In merito alla stessa questione di legittimità costituzionale, la Corte Costituzionale aveva già riscontrato la lesione dei citati parametri, evidenziando «la necessità che l'ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, [...] la "priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario" [...e] che non sarebbe tollerabile l'eccessivo protrarsi dell'inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia» (sentenza n. 30 del 2014).
L'art. 1, commi 777, 781 e 782, della legge n. 208 del 2015 ha modificato la legge n. 89 del 2001, tra l'altro introducendo una serie di rimedi preventivi il cui mancato esperimento rende inammissibile la domanda di equa riparazione (art. 2, comma 1, della legge Pinto, come modificata) - per i processi che al 31 ottobre 2016 non abbiano ancora raggiunto una durata irragionevole né siano stati assunti in decisione (art. 6, comma 2-bis, della legge Pinto come modificata) - e che, in relazione alle diverse tipologie processuali, consistono o nell'impiego di riti semplificati già previsti dall'ordinamento (art. 1-ter, comma 1, della legge Pinto come modificata) o nella formulazione di istanze acceleratorie (art. 1-ter, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge Pinto come modificata).
Secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU, i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che il procedimento diventi eccessivamente lungo; tuttavia, per i paesi dove esistono già violazioni legate alla sua durata, per quanto auspicabili per l'avvenire, possono rivelarsi inadeguati (Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
Già tale rilievo mina in radice l'idoneità dell'iniziativa assunta dal legislatore a sopperire alla carenza di effettività precedentemente riscontrata, posto che i rimedi introdotti non sono destinati a operare in tutte le ipotesi - tra cui quelle al vaglio nei giudizi a quibus - nelle quali, al 31 ottobre 2016, la durata del processo abbia superato la soglia della ragionevolezza.
A ciò si aggiunga che la Corte EDU «ha riconosciuto in numerose occasioni che questo tipo di mezzo di ricorso è "effettivo" nella misura in cui esso velocizza la decisione da parte del giudice competente» (Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
Nella fattispecie, da un lato, tutti i rimedi preventivi introdotti, alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, dall'altro, per espressa previsione normativa, «[r]estano ferme le disposizioni che determinano l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti» (art. 1-ter, comma 7, della legge Pinto come modificata).
La conclusione trova conforto in quanto recentemente affermato dalla Corte EDU (sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia), pronunciando in ordine all'istanza di prelievo alla cui formulazione l'art. 54 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, subordinava la proponibilità della domanda di equa riparazione per l'irragionevole durata del processo amministrativo. Tale istanza, che costituisce l'archetipo di gran parte dei rimedi preventivi di nuova introduzione, è stata ritenuta dalla Corte EDU priva di effettività.
 Il legislatore non ha rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato e che, pertanto, l'art. 4 della legge n. 89 del 2001 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto (analogamente, sentenza n. 3 del 1997).
D'altronde, se i parametri evocati presidiano l'interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia, rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l'attivazione dello strumento - l'unico disponibile, fino all'introduzione di quelli preventivi di cui s'è detto - volto a rimediare alla sua lesione, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina.
La Corte Costituzionale conclude nel senso che spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall'altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione» (sentenza n. 113 del 2011).

domenica 29 aprile 2018

NUOVI PARAMETRI FORENSI D.M. 37/2018



NUOVI PARAMETRI FORENSI – DECRETO MINISTERIALE N° 37/2018 PUBBLICATO IN G.U. N° 96 DEL 26.04.2018
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 96 del 26 aprile 2018 il Decreto Ministeriale n° 37/2018 con i nuovi parametri forensi
Soglie inderogabili. Su proposta del CNF ed udito il parere del Consiglio di Stato il Ministero della Giustizia ha rimodellato i parametri forensi. In sede giudiziale, per quanto concerne i parametri generali per la determinazione dei compensi, il decreto modifica il d.m. n. 55/2014, mantenendo, da una parte, la possibilità di diminuzione dei valori medi della tabelle fino al 50% e, dall’altra, eliminando la locuzione «di regola», sostituendola con «in ogni caso». In questo modo la diminuzione non potrà andare oltre il 50%. La stessa modifica viene effettuata in relazione alla fase istruttoria nella quale la diminuzione può ora avvenire «in ogni caso» fino al 70%.
Aumento del 30% per gli avvocati “telematici”. Il nuovo decreto, poi, aggiunge il comma 1-bis all’art. 4 d.m. n. 55/2014, il quale prescrive che «il compenso determinato tenuto conto dei parametri generali di cui al comma 1 è di regola ulteriormente aumentato del 30% quando gli atti depositati con modalità telematiche sono redatti con tecniche informatiche idonee ad agevolarne la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto».
Mediazione e negoziazione assistita: tabelle “personalizzate”. L’art. 5 del decreto n. 37/2018, si occupa della disciplina dei parametri per la liquidazione del compenso nei procedimenti di mediazione e nella procedura di negoziazione assistita, nonché, delle modifiche ai paramenti tabellari per i giudizi davanti al Consiglio di Stato. In particolare si prevede l’aggiunta di un nuovo comma all’art. 20 del d.m. 55/2014, il quale dispone l’introduzione di nuove tabelle, allegate al decreto, per la liquidazione del compenso, garantendo dei valori certi in tutte le fasi dei procedimenti di mediazione e nella procedura di negoziazione.
Compensi relativi all’attività penale. Infine dal decreto emerge l’estensione del compenso anche alla fase procedimentale e la possibilità di aumenti o diminuzioni nel caso in cui l’avvocato difenda più soggetti con la medesima posizione processuale. Nello specifico l’art. 12, comma 2, d.m. n. 55/2014 recante i parametri generali per la determinazione dei compensi concernenti l’attività penale è così sostituito: «quando l’avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale o procedimentale, il compenso unico può di regola essere aumentato per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 30% (al posto di “20%”), fino a un massimo di dieci soggetti, e del 10% (al posto di “5%”) per ogni soggetto oltre i primi dieci, fino a un massimo di trenta (al posto “di venti”). La disposizione del periodo precedente si applica anche quando il numero dei soggetti (al posto di “il numero delle parti”) ovvero delle imputazioni è incrementato per effetto di riunione di più procedimenti, dal momento della disposta riunione, e anche quando il professionista difende un singolo soggetto contro più soggetti (al posto di “una parte contro più parti”), sempre che la prestazione non comporti l’esame di medesime situazioni di fatto o di diritto». 

Le nuove garanzie mobiliari ex L. 3 maggio 2016 n.59


 Sono trascorsi quasi  due anni dall’ emanazione del decreto legge 3 maggio 2016, n. 59, convertito il successivo 30 giugno con legge n. 119, che ha introdotto una nuova garanzia reale mobiliare di natura non possessoria nell’ambito di «Misure a sostegno delle imprese e di accelerazione del recupero crediti».
Al di là dagli ambiziosi proclami e dalle buone intenzioni la nuova garanzia mobiliare non possessoria è rimasta lettera morta perché la mancata adozione del registro informatico necessario per assicurarne l’opponibilità ne ha impedito fino ad oggi l’utilizzo.
È di questi giorni la notizia che nel tentativo di vincere l’immobilismo séguito al varo della nuova legge l’Associazione bancaria italiana e la Confederazione generale dell’industria italiana hanno sottoscritto un «Accordo per il credito e la valorizzazione delle nuove figure di garanzia» con il quale si propongono, tra l’altro, di «svolgere un’azione congiunta per favorire l’emanazione del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia, che istituisce il registro informatico dei pegni non possessori e ne disciplina il funzionamento».
Ci si può domandare perché il legislatore non abbia reputato di avvalersi, così come aveva fatto con l’art. 46 TUB per la opponibilità del privilegio, del registro già tenuto presso il Tribunale per la trascrizione ex art. 1524 c.c. del patto di riservato dominio. Eppure, le ragioni che segnalavano l’urgenza di un intervento riformatore del sistema delle garanzie mobiliari erano ben delineate nella Relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del Decreto Banche.
In tema di pegno gli interventi legislativi e giurisprudenziali sono stati sollecitati da dottrina attenta, come il Gabrielli e il Candian in tema di spossessamento e di pegno anomalo, alle istanze di rimeditazione degli istituti provenienti dalla realtà socio–economica ed hanno delineato una pluralità di modelli legali della garanzia, ai quali si ricollegano altrettanti statuti normativi.
Il dato immediatamente ricavabile dalla disciplina delle figure non codicistiche di pegno introdotte già nel 1984 (pegno sui prosciutti) e nel 2001 (pegno sui prodotti lattiero caseari) è la perdita di centralità dello spossessamento, sostituito, nella legislazione speciale, da meccanismi idonei ad evitare immobilizzazioni antieconomiche dei beni, ovvero (è il caso del pegno su strumenti finanziari dematerializzati) a conciliare l’opponibilità della garanzia con l’assenza di fisicità della res.
 Ci si trova, dunque, dinanzi al paradosso di un iter legislativo iniziato nel 2016 con decretazione di urgenza ma ancora incompleto.